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Margherita Guidacci nasce a Firenze, vicino alla «bella chiesa romanica dei SS. Apostoli», il 25 aprile 1921. A tre anni si trasferisce con i genitori in via Santa Reparata, un’altra strada del centro storico.
«Era una casa strana e scomoda, ramificata come un albero, ma con una terrazza sul tetto che era il mio regno. Di là si vedeva tutta la città e tutto il giro dei colli, e quando mi sdraiavo sul pavimento, come spesso facevo, vedevo solo il cielo ed il passare e trasformarsi delle nuvole. Un’altra casa che ha contato per me è stata quella dei miei nonni, in Mugello, dove trascorrevo le vacanze».
Il padre Antonio, avvocato, divide lo studio con Piero Calamandrei. La madre si chiama Leonella Cartacci.
«Ero figlia unica, in una famiglia composta, oltre che dai miei genitori, da molte persone anziane. Vivevano ancora, infatti, tutti i miei nonni e una prozia. La mia nonna paterna […] era una persona straordinaria e, nonostante i suoi anni, la persona più giovane di spirito che io abbia mai conosciuto. Ma, naturalmente, non vi era in casa molta allegria: le malattie erano frequenti, il senso del declino, diffuso nell’atmosfera, era più forte di quello della mia crescita».
Nel 1931 il padre si ammala di tumore: ne morirà in pochi mesi.
«Io avevo allora dieci anni, e ritengo che la fine di quel poco di fanciullezza che avevo avuto sia stata segnata da quella morte, alla quale assistei. Poi, uno ad uno, se ne andarono anche tutti i vecchi, e rimanemmo solo mia madre e io: molto sole e molto unite». -
Bambina «timida e introversa», la solitudine è per lei il tratto dominante dell’infanzia. «Fra i coetanei mi sentivo spersa, incapace di quell’ affiatamento immediato e spensierato che invidiavo agli altri bambini. La mia vita di relazione era molto scarsa, praticamente inesistente. In compenso era intensa la mia vita di studio, di letture. I libri mi offrivano, in un certo senso, un surrogato di quegli incontri di cui non ero capace nella vita quotidiana».
Frequenta le elementari e il ginnasio inferiore in una scuola di suore, l’Istituto Inglese Italiano di via Santa Reparata; si iscrive poi al Liceo Michelangelo, dove nel 1939 consegue il diploma di maturità con voti altissimi in tutte le materie. «Negli anni del liceo ricevei quella che ritengo sia stata per me la più forte influenza formativa nel campo intellettuale. Essa mi venne da un professore di matematica, Giuseppe Gherardelli, che per il rigore e la chiarezza delle sue spiegazioni, l’entusiasmo con cui ci conduceva alle verità della sua scienza e la gioia di quando ce le aveva fatte scoprire, rimane per me il più alto esempio di ‘maestro’.
Credo di dovere al suo insegnamento certe esigenze a cui sono rimasta fedele tutta la vita: anche se al momento della scelta universitaria, dopo avere lungamente esitato tra Matematica e Lettere, optai alla fine per quest’ultimaFacoltà. A Lettere […] trovai un altro maestro importante in Giuseppe De Robertis, che mi spalancò il mondo della letteratura contemporanea, di cui allora, in un corso normale di studi, non si aveva alcuna notizia. Fu un mondo
che mi affascinò, tanto che chiesi ed ottenni di laurearmi con una tesi su Ungaretti, un fatto che per allora (1943) era anomalo e quasi scandaloso».
Conclusa l’università, i suoi interessi si rivolgono in modo quasi esclusivo alla letteratura inglese e anglo-americana: risalgono all’immediato dopoguerra gli incontri per lei decisivi con la poesia di Emily Dickinson e di T.S. Eliot. Studia al British Institute di Firenze, e inizia intanto a collaborare – con recensioni, traduzioni e saggi a numerose riviste letterarie. -
Nel 1946, a venticinque anni, pubblica la sua raccolta d’esordio: La sabbia e l’angelo. «Avevo sempre amato la poesia e desiderato di scriverne – i miei tentativi risalgono all’infanzia , fin dove risale la mia memoria». Nato dall’«esperienza della guerra, col suo dolore e terrore, col senso onnipresente della morte», quel libro «volle essere e fu un “canto di comunione con i morti”. La sua forma era semplice, priva di qualsiasi ornamento o colore, ma solida e dura. Non si scioglieva fra le dita, si poteva stringerla. Dentro di me la paragonavo a una mandorla». Oltre all’Antico Testamento, le altre letture destinate a incidere profondamente nella sua storia di poeta sono quelle di Rilke e Leopardi, Melville e Kafka.
Dopo l’uscita di La sabbia e l’angelo compie il suo primo viaggio all’estero, in Irlanda. Nei tre anni successivi insegna latino e greco presso l’educandato delle Montalve alla Quiete; come incaricata e poi titolare di una cattedra di letteratura inglese, dal 1950 lavorerà senza interruzione in numerosi licei scientifici e istituti tecnici di Prato, Firenze, Bologna. Inizia nel 1952 una lunga quanto fruttuosa attività di pubblicista sulla terza pagina del «Mattino dell’Italia Centrale»: vi pubblicherà anche un breve reportage dall’Inghilterra, dove nell’agosto 1953 frequenta un corso per insegnanti di inglese patrocinato dal British Council. Esce nel 1954 il suo secondo volume di versi, Morte del ricco; primo di una lunga serie, nel 1948 le era stato conferito, ex-aequo con Sandro Penna, il premio Le Grazie per cinque poesie inedite. Il 3 ottobre 1949 ha intanto sposato Luca Pinna, suo compagno di studi all’università: dal matrimonio nascono Lorenzo (1950), Antonio (1951), e in seguito Elisa (1956).
Per gli impegni di lavoro del marito, che come sociologo collabora all’Ufficio ricerche della RAI, nel 1958 lascia l’appartamento di via della Mattonaia 43 e con la famiglia si trasferisce a Roma. Ottenuto un comando presso la Presidenza del Consiglio, e intrapresa un’intensa collaborazione con «II Popolo» (per cui redige inchieste recensioni articoli di costume), insegnerà ancora al Liceo scientifico Cavour di Roma fino al 1972, quando si aggiudica una cattedra di Letteratura anglo-americana presso l’Università di Macerata e poi
all’Istituto di Magistero della Libera Università Maria SS. Assunta di Roma. -
«A La sabbia e l’angelo sono seguiti molti altri libri, ad intervalli molto irregolari, perché non mi sono mai forzata a scrivere quando non ne sentivo la necessità intcriore; così ho avuto periodi deserti, che sono durati anche dieci anni, e periodi pienissimi. La mia poesia, pur non essendo se non raramente diaristica, è strettamente collegata alla mia vita, a esperienze che mi hanno colpita, avvenimenti familiari o avvenimenti del mondo».
Ammalato da tempo, nel 1977 muore il marito; due anni più tardi la madre, che aveva abitato con loro fin dai primi anni del matrimonio. Rimasta sola, divide le sue giornate tra l’insegnamento e la poesia.
«Non frequento la società letteraria, come non l’ho frequentata mai. I miei contatti, più che con determinati ambienti, sono stati con singoli poeti, verso i quali mi portava una profonda ammirazione sia per la loro arte sia per la ricchezza della loro umanità: come Carlo Betocchi e Jorge Guillén. Il 7 gennaio 1990, di ritorno da un viaggio a Parigi dove su invito della Maison de la Poesie si è recata per presentare il suo ultimo libro, Il buio e lo splendore, viene colpita da un ictus cerebrale che le renderà quasi impossibile non soltanto parlare e camminare ma soprattutto scrivere.
Durante la notte del 19 giugno 1992, dopo due anni di sofferenza e di cure, Margherita Guidacci muore nella sua casa romana di via Picco dei Tre Signori 21. Ha tra le mani la prima copia di una sua antologia poetica tradotta in inglese da Ruth Feldman: si intitola Landscape with Ruins.